L’avanzata degli “studenti coranici” sembra inarrestabile: il conflitto più lungo mai combattuto dagli USA potrebbe concludersi con un disastro simile a quello del Vietnam
(Asiablog.it) — Il conflitto più lungo mai combattuto dagli Stati Uniti potrebbe concludersi con un disastro simile a quello del Vietnam. Vent’anni di guerra, due triliardi di dollari e 238.000 morti potrebbero essere serviti a poco: l’Afghanistan rischia di tornare al punto di partenza, ovvero in mano al gruppo estremista islamico dei talebani.
I talebani (dal pashtō ṭālib «studente»), che hanno guidato l’Afghanistan dal 1996 al 2001, sono particolarmente noti per aver ospitato le basi dell’organizzazione terroristica al Qaida, per aver compiuto massacri sistematici, per aver fatto compravendita di esseri umani per sfruttamento sessuale, per il brutale trattamento delle donne, per il genocidio culturale contro intere etnie e tradizioni religiose (si pensi alla distruzione dei Buddha di Bamiyan) e per una lunga serie di altri crimini.
I talebani dilagano
La guerra non è finita, ma gli eventi delle scorse settimane hanno inclinato pesantemente l’equilibrio a favore dei talebani. A questo punto è improbabile che il governo afghano sia in grado di invertire la rotta, e ancor meno di riconquistare tutto il territorio che ha perso.
Tra maggio e agosto i talebani hanno preso il controllo di oltre la metà dei 421 distretti in cui è diviso l’Afghanistan. La scorsa settimana hanno occupato parzialmente o completamente quattro grandi città afgane: Kunduz, Ghazni, Herat e Kandahar. Le ultime due sono rispettivamente la terza e la seconda città del Paese per popolazione, nonché due dei centri urbani afgani più importanti dal punto di vista economico e culturale.
Fuori dalle città la presenza talebana è ancora più massiccia. Difatti negli ultimi mesi del conflitto l’avanzata militare degli “studenti” coranici è stata metodica e apparentemente ben pianificata. Prima si conquistano piccoli villaggi isolati e poco o per nulla difesi per controllare le campagne e le vie d’accesso alle città. Poi si procede all’accerchiamento e al trinceramento dei combattenti talebani intorno ai centri abitati per indebolire gradualmente le difese avversarie, contando anche sulle diserzioni nelle file dei governativi. Parallelamente si conquistano i principali posti di blocco alle frontiere (con il Tagikistan, il Turkmenistan, l’Iran e Spin Boldak con il Belucistan in Pakistan), che tra le altre cose permettono di controllare una parte dell’import-export e quindi di intascarne i dazi. Infine, si accerchiano e prendono sistematicamente i capoluoghi di provincia.
Talebani verso Kabul
Se questo è quello che sembra, ovvero una chiara strategia militare, allora è logico dedurre che l’atto finale andrà in scena a Kabul. Non è dato sapere se e quando verrà lanciato l’attacco. Né sappiamo se i talebani abbiano intenzione di tentare una rapida conquista militare della città, che rischierebbe di tramutarsi in una guerra urbana devastante per la popolazione civile della capitale (oltre cinque milioni di persone).
Al contrario, è possibile che la battaglia per Kabul possa essere preceduta da un accerchiamento della capitale per esercitare un’intensa pressione sul governo affinché si arrenda. La pressione talebana potrebbe essere duplice: politica e militare-terroristica. La pressione politica potrebbe cercare di rovesciare il governo chiedendo le dimissioni del presidente Ashraf Ghani e cooptando singoli leader politici o gruppi di potere, un approccio simile a quello utilizzato in altre zone del Paese. Se il governo dovesse decidere di resistere, si passerebbe ad una pressione militare-terroristica, che includerà probabilmente l’assedio della metropoli attraverso l’interruzione delle strade che portano dentro e fuori Kabul, attacchi con razzi e con artiglieria, il posizionamento di ordigni esplosivi, autobombe e attacchi suicidi.
Il ritiro americano
Mentre il futuro dell’Afghanistan sembra sempre più incerto, una cosa sta diventando estremamente chiara: lo sforzo ventennale degli Stati Uniti per ricostruire l’esercito afgano e farne una forza militare indipendente capace di difendere il Paese è fallito clamorosamente.
Per questa ragione il ritiro delle forze statunitensi (e con esse quelle alleate), programmato dal presidente Joe Biden per essere completato entro l’11 settembre 2021 (con l’approvazione dalla maggioranza degli americani), mette in serio pericolo la sopravvivenza dello stato afgano che è stato faticosamente costruito dopo il rovesciamento del regime talebano nel 2001.
Non solo. L’accelerazione militare talebana degli ultimi mesi lascia intuire che il crollo dello stato afgano, un risultato per certi versi clamoroso, potrebbe verificarsi più rapidamente di quanto ci si aspettasse. Qualche mese fa l’intelligence statunitense stimava che potrebbero volerci due o tre anni prima che la capitale cada sotto il controllo dei talebani. Questa oggi sembra una stima enormemente ottimista, se non del tutto inverosimile.
Verso un nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan
Chi pensa che la caduta del’Afghanistan nelle mani dei mujāhidīn sia il prezzo da pagare per avere finalmente la pace nelle martoriate valli afgane potrebbe sbagliarsi. A Kabul un ventennio di regime filo-occidentale ha permesso il fiorire di una generazione laica e cosmopolita. Il relativo pluralismo e dinamismo dei cittadini della capitale avrà serie difficoltà a sposarsi con l’oscurantismo talebano, senza dire che in tanti a Kabul lavorano direttamente o indirettamente per il governo, i ministeri e i vari uffici e dipartimenti governativi, tutti in buona parte sostenuti dai contribuenti americani.
Fuori dalla capitale la situazione è molto differente, ma questo per i talebani non è necessariamente un vantaggio. Quella afgana è ancora una società tribale, con le famiglie e i clan che si aggregano, alleano e fratturano lungo linee etniche. Ci sono i Pashtun (a cui appartengono i talebani), che rappresentano, secondo le diverse stime, tra il 38 e il 50% del popolo afgano. Ma anche i Tagiki (25-27%), gli Hazara (9-19%), gli Uzbeki (6-9%) e via via altri gruppi etnici minoritari (Aimak, Turkmeni, Beluci, ecc) che di volta in volta possono allearsi o combattersi per difesa, diffidenza, sopravvivenza, opportunità, interesse o per un insieme ancora più complesso di ragioni.
È per questo che per i talebani controllare l’intero Afghanistan potrebbe essere tanto difficile quanto lo è oggi per l’attuale governo. Probabilmente intere aree del Paese rimarranno nelle mani di forze locali, come d’altronde accadde alla fine degli anni Novanta, il che potrebbe fare da scintilla per lo scoppio di una nuova guerra civile (con una dimensione anche transnazionale, visto l’interesse di potenze regionali e non). Non è da escludere nemmeno l’esplosione di una ennesima crisi di rifugiati: una nuova ondata di profughi disperati in fuga dal conflitto.
Se e quando i talebani riprenderanno a Kabul, di certo ricominceranno ad usare pietre, bastoni e kalashnikov per spazzare via qualunque piccola o minuscola conquista civile ottenuta dai cittadini afgani nell’ultimo ventennio. Come d’altronde stanno già facendo nei distretti che hanno riconquistano.
Di fronte a questa tragedia, la speranza è che il nuovo “Emirato islamico” non si presti ancora una volta a fare da “centrale del terrore”, ovvero che non offra attivamente aiuto ad organizzazioni terroristiche internazionali, come prima dell’intervento americano, sotto il regno del mullah Omar, morto di tubercolosi nel 2013. Ma è presto per dirlo.
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